Digitale birichino

di

Roberto Maragliano
Influencer, già Professore ordinario presso l’Università di Roma Tre

 

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Pur standoci dentro, o forse perché ci stiamo troppo, rischiamo di capire poco del digitale e di come esso determina e riflette ad un tempo il nostro primordiale e comune percepire la realtà, praticandola e vivendola. Ci preoccupiamo delle sorti del bambino, che abita questa dimensione in presa diretta, “naturalmente”, per così dire. Non che sbagliamo, da adulti, a preoccuparci di lui e per lui. Siamo responsabili della sua crescita, e dunque è legittimo che cerchiamo di metterlo al riparo dei danni che, temiamo, è destinata a procurargli l’esposizione al digitale: dunque ad un’esperienza che vive come sua, “naturalmente”, appunto, e che noi controlliamo poco e male. Ma, questo è il punto, in primo luogo dovremmo preoccuparci di noi stessi, di noi “buoni”, che l’esperienza del digitale la facciamo, comunque, convinti o controvoglia, senza che però ci impegniamo seriamente a capire in che cosa essa consista, e come ci trasformi, internamente, assieme a quel che vediamo trasformarsi fuori. Di fatto, questo è un segno di immaturità: ma della nostra, di chi dovrebbe ammaestrare e, invece, nemmeno sa amministrare se stesso, preso com’è dall’antica illusione di essere libero di scegliere tra l’accogliere o il rifiutare specifiche manifestazioni del reale.

Al fondo, siamo vittime di condizioni paradossali.

Da un lato, i termini che con più assiduità utilizziamo per stigmatizzare le insidie del digitale, li ricaviamo dalla famiglia di concetti che trova al suo centro l’idea di semplicità: il tutto che è alla portata di tutti, la caduta delle legittime barriere di selezione e comprensione delle cose, il loro consumo illimitato e irriflesso. No, questo non va bene, ci diciamo e, quando possibile, questo diciamo al nostro piccolo. Ma, sotto sotto, di questa facilità di accesso, noi stessi godiamo, anche se poi pentendoci ci confessiamo, tramite la sua intermediazione.

Da un altro lato, le volte che ci misuriamo col problema, non riusciamo a toglierci dalla mente e dal vocabolario il termine e soprattutto il concetto duro e ingombrante di tecnologia: è un segno, questo, di quanto siamo vittime di una tradizione culturale che riporta la tecnica e le sue manifestazioni ad un che di esteriore, complicato e pericoloso, un qualcosa che non sta pienamente sotto il nostro controllo. È fantasma della macchina a perseguitarci. Fantasma di cui ci dimentichiamo, però, quando abbiamo a che fare con scrittura o libro, tecnologie delle quali non sentiamo l’estraneità, anzi, le ergiamo spesso a baluardo “contro la tecnologia”.

Semplicità e complicazione sono termini opposti, è evidente. Altrettanto evidente dovrebbe essere il fatto che questa opposizione, deflagrando o al contrario ricomponendosi, a secondo delle specifiche situazioni, denuncia i limiti del nostro arcaico modo di concepire la tecnologia.

Di fatto, il bambino sta da un’altra parte, nella complessità.

Dovremmo dunque porci delle domande giuste, su di lui.

Dentro la tecnologia digitale fin da prima di nascere, come personaggio famigliare la cui immagine circola e va fissandosi attraverso la condivisione dei ritratti ecografici, il bimbo, via via che cresce, sperimenta il mondo in buona parte attraverso il tramite e la compagnia del digitale, senza sapere, però, che si tratta di tecnologia (lui felice!). Lo attirano le manifestazioni esteriori e materiali di quella parte di realtà: e sono proprio le stesse che a noi benpensanti adulti danno per lo più fastidio. Del resto, non si tratta di cosa nuova: anche in epoca pre-digitale il primo oggetto che il piccolo desiderava afferrare e avere con sé, pure nella sua versione infantile di Chicco, era il telefono. Perché? Perché è un oggetto che suona, ha un’anima. Ed è per questo che ieri ci turbava e oggi, ch’è diventato prolungamento corporeo, ancor più ci turba: perché tiene in vita un mondo in cui vogliamo ad un tempo essere e non essere.
Ma andiamo avanti.
Al di là della cornice affettivo/relazionale rappresentata dall’eccitazione di noi adulti quando lo inquadriamo col cellulare (così gli instilliamo il virus), eccolo lì, il nostro bimbo, nei suoi giorni più maturi, sistematicamente immerso e coinvolto in un’esperienza complessiva dove il digitale vive, si riproduce e circola tramite suono, immagine, azione, promuovendo ma anche codificando la sua intelligenza senso-motoria. Sarà il libro che suona, una volta titillato, o sarà il piccolo schermo del cellulare o del tablet che reagisce col movimento e il suono, una volta toccato, sarà il giocattolo virtuosamente imbottito di artifici di intelligenza. Questa, per lui, è realtà, è la realtà tutta, fisica e immaginaria, dura e fantastica ad un tempo. Non la sente, non la prova come una tecnologia esterna a lui, piuttosto la sente come una manifestazione del suo sé, un tratto di positivo egocentrismo.

Se, tornando a noi, accettassimo questa idea e cioè che un qualcosa figuri come tecnologia fino a che non lo si interiorizza e dopo non più, faremmo un buon passo in avanti. Don Chisciotte non vede i libri che vede Sancho, vede, vive e si nutre di immaginazione libresca e questo gli consente di sopravvivere ai casi e anche alle disgrazie della vita. Noi adulti, oggi, più Chisciotte che Sancho, quando leggiamo (se leggiamo bene, e non per costrizione, come, sovente, è a scuola) non vediamo il libro come oggetto materiale, ma vediamo e viviamo la sua anima.

Perché, allora, non vogliamo far valere una simile considerazione a proposito del bambino e della “sua” tecnologia?
Insomma, io credo che se facessimo lo sforzo di liberarci della rappresentazione materialistica e persecutoria di ciò che è tecnico e strumentale (valida universalmente, salvo le eccezioni che ho detto), capiremmo che, anche per come noi stessi ci comportiamo, lui, il bambino, nasce con quella realtà tecnologica incorporata dentro, e che ridimensionarne il ruolo (come faremmo, giustamente, con un adulto che vivesse solo e soltanto di lettura e libri) non è operazione pedagogica che possa essere compiuta investendo solo sulla via materiale, attraverso le proibizioni e le inibizioni. Negare al bambino il bisogno di sfamarsi di suoni, immagini e tocchi sarebbe come negargli il bisogno di giocare col suo corpo e la sua sessualità. Riconosciamolo, dunque. In quasi tutti gli oggetti “infantili” con cui entra in contatto c’è incorporato un po’ di digitale ed è proprio questa componente che più lo attira: perché lui è nato con quella particolare predisposizione sensoriale, con quella tecnologia dentro.
Attenzione, però. Dopo questo impegnativo passo occorre predisporsi ad uno successivo, altrettanto importante.

Per far crescere l’infante nel migliore dei modi, dandogli gli strumenti per godere del mondo e preservarsi dalle sue insidie, ma prima di tutto per darci ragione di questo stesso mondo in cui stiamo, dovremmo, invece che ammonirlo e insegnargli contenimento e precauzione, imparare da lui cosa è che rende il digitale così pervasivo, immediato, semplice: ovvero, “naturale”. Anche per noi, piaccia o no. Dovremmo insomma riconoscere, come sosteneva un pioniere del settore, Seymour Papert, che tra le dimensioni del digitale e quelle dell’infantile c’è un rapporto strettissimo. Non possiamo aiutare il bambino a contrastare i pericoli delle sue immersioni se non gli chiediamo, di converso, un aiuto ad uscire dalle nostre immersioni.

Per entrare nella logica del digitale, che è sua “naturalmente”, e può diventare nostra solo se riusciamo a pensarla, concettualizzarla per ciò che è, si rende necessario che, mantenendoci adulti, ci facciamo bambini, accettando di misurarci con una realtà fenomenica al di sotto della quale stanno una lingua (in senso lato), una epistemologia, un’antropologia diverse da quelle che la più nobile (ma ormai vetusta) tradizione pedagogica ci ha consegnato e su cui continuiamo a far essere la scuola e a fare formazione, soprattutto, scolasticamente parlando, con l’impartire un’istruzione “seria” all’adolescente.

Piuttosto, sarebbe urgente iniziare a prendere coscienza  (anche se la tradizione accademica nazionale rende ardua una simile impresa) di come la lingua, l’epistemologia, l’antropologia che continuiamo ad intendere come tipicamente “scolastiche” (in quanto centrate, in modo quasi ossessivo, sull’alfabetismo) coincidano con un canone di cultura che è proprio ciò che le scienze e l’arte e la filosofia ed anche le culture di massa hanno messo drammaticamente e platealmente in discussione, nei suoi stessi fondamenti, lungo tutto il Novecento. Imboccando questa via non sarebbe troppo arduo ammettere che l’esplosione, nel secolo scorso, di tante delle antiche e classiche certezze sia avvenuta proprio attraverso l’accettazione e la promozione, nelle arti, scienze, ma pure nei consumi di massa, di istanze primordiali, o “infantili”, o “analfabetiche” (per andare alle provocazioni di Alberto Abruzzese).

 

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Pluralità e integrazione di codici, al di là di ogni possibile gerarchia; logiche associative e reticolari, al di là di ogni superiorità riconosciuta a sequenzialità e linearità: sono le due prerogative filosofiche di fondo, gli ingredienti che dovremmo (io credo) considerare irrinunciabili, a proposito dell’esperienza di digitale. Non nascono con il digitale. Riprendendo Walter Ong, potremmo qualificare l’esperienza di digitale come il precipitato di una sorta di “lingua madre”, dotata di grana e sostanza diverse (ma non totalmente oppositive) rispetto alla sostanza della “lingua padre”, quella che coinciderebbe, invece, con la parola scritta, tanto più se stampata. Non è un caso che, con questa impostazione, si venga a toccare un qualcosa di freudiano e di sacro; Ong ne era ben consapevole.

Quanta complessità si cela sotto ciò che siamo indotti a considerare, riduttivamente, come troppo semplice o troppo complicato!

C’è insomma, nel digitale, una caratteristica primordiale che dovremmo renderci capaci di cogliere: per noi stessi, come uomini e donne di mondo, prima che come educatori ed educatrici, perché si possa evitare di subire passivamente l’azione di quella realtà, per la sua componente luminosa e liberatoria, e di diventarne vittime, altrettanto passivamente, per la parte oscura e perturbante. È una prerogativa, questa di cui sto dicendo, che ovviamente non nasce col digitale, ma che il digitale, anche e soprattutto quello di consumo, ha saputo intercettare e scovare nell’universo mondo e amplificare, socializzandola attraverso il meccanismo tipicamente suo del contatto virale, e vitale. Come l’arte e la scienza, prima, come la cultura dei mezzi di massa, prima, così il digitale, dopo, ha fatto sua una propensione umana a rompere le cose per vedere come sono fatte e farne di altre, con i frammenti di quel che resta. Che, poi, è quanto di più infantile si possa immaginare, ora. Ma anche che si sia immaginato, prima, lungo tutto il Novecento.

Vediamolo, dunque, un esempio di questo prima. E facciamo un salto indietro di un secolo.

Produrre una “fusione totale per ricostruire l'universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente”. Dare “scheletro e carne all'invisibile, all'impalpabile, all'imponderabile, all'impercettibile”. Trovare “degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell'universo”, per poi combinarli insieme, “secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”. Far sì che l’arte, fondendosi nell’esperienza di tutti e di tutto, garantisca “l'espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale”.

Questo leggiamo nelle prime righe del Manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo di Giacomo Balla e Fortunato Depero. 11 marzo 1915. Ne viene (come non ammetterlo?) la sollecitazione a cogliere nella digitalizzazione del reale di cui siamo attualmente testimoni un’altra ricreazione, ben più estesa, pervasiva e riuscita di quella lì auspicata, ma non totalmente diversa per l’intento ugualmente perseguito, estetizzante finché volete, ma anche liberatorio rispetto a tante delle classiche catene, di fondere la realtà per farcela ricostruire con caratteri diversi, più dinamici e “capricciosi”. Con i suoni, con i colori, con le cose. L’Internet delle cose, appunto, che rende magici gli oggetti d’uso quotidiano (come l’auto dotata di navigatore satellitare), li fa muovere e respirare, già permettendoci di vivere (quando facciamo pace con le nostre paure) dentro un mondo disneyano.
E proprio il riferimento ad uno dei capisaldi della cultura novecentesca, Walt Disney, permette di sviluppare in due direzioni lo spunto che ci viene dai due “astrattisti futuristi” (così Balla e Depero si autodefiniscono nel Manifesto).

Una prima direzione invita a cogliere, nell’arte e nell’intrattenimento considerati assieme, la progressiva caduta di barriere troppo rigide tra le culture dell’infanzia e le culture dell’adultità, o tra i livelli formali e informali del sapere, con la conseguente promozione di forme originali di dialogo, collaborazione, intreccio, meticciato tra elementi diversi. Se, assieme a Jay David Bolter, ci impegniamo a vedere, nello scenario contemporaneo dei media segnato dalla presenza della rete, quella condizione di “plenitudine” che solo la predisposizione al digitale, per i suoi tratti di “anarchia birichina”, consente di navigare e usare (il tutto che si mescola con il tutto) non possiamo impedirci di rimarcare, una volta ancora, che, per far fronte al mondo delle esperienze per come è già costituito tocca a noi assumere lo sguardo del bambino prima che questi sia forzato ad assumere il nostro sguardo, attualmente limitato.

La seconda direzione sollecita a fare i conti con un approccio pedagogico alla questione del digitale. Se prendiamo spunto, anzi: se prendiamo slancio da quella componente “ludica” e seriamente “ironica” che è impossibile cancellare all’interno della produzione artistica, musicale, scrittoria della cultura nazionale, per un verso, ma per un altro dentro tanti degli eventi dell’intrattenimento pubblico che hanno segnato il Novecento italiano, non possiamo evitare di riconoscere che è anche lì che si è riflesso ed è andato diffondendosi un atteggiamento “birichino”, cioè morbidamente eversivo nei confronti della realtà: si tratta di una “dote” che, se riconosciuta, aiuterebbe nell’intento di cui ho detto, quello di farci bambini per capire per bene che cosa è il digitale e in che cosa può contribuire ad una condivisa rigenerazione (culturale, economica, sociale).

Per riuscire in questo intento dovremmo profittare della “plenitudine”, cioè l’avere, oggi, tutto a portata di mano, senza barriere d’ogni tipo tra elevato e futile, per “studiare” assieme, alla rinfusa, Luciano Berio e Giacomo Balla, Paolo Poli e Gianni Rodari, Achille Campanile e Bruno Munari, Jacovitti e Umberto Eco, Dino Risi e Totò. Ci servirebbe, questo studio, a cogliere il tratto positivamente “infantile”, e liberatorio, del digitale, le opportunità di futuro che esso mette a disposizione a tutti noi, già oggi, anche a quelli che sono assillati dai suoi pericoli. Sono convinto che se facessimo una “rottura epistemologica” di questo tipo riusciremmo a cogliere, dentro la cultura pedagogica nazionale, un qualcosa che sta in positiva sintonia con il tratto birichino che ho fin qui cercato di evidenziare e che, malgrado tutto, offre energie ed argomenti validi per la messa in discussione di tanta della  retorica perbenistica tuttora imperante: penso al filone che da Maria Montessori arriva a Loris Malaguzzi, e che è testimoniato da figure di pensiero così diverse ma ugualmente destabilizzanti, come quelle di Antonio Faeti, Francesco De Bartolomeis, Egle Becchi.

Se facessimo questo sforzo porteremmo, ne sono sicuro, un po’ di ossigeno nel campo di ricerca e produzione, attualmente inerte e grigio, attorno ai temi complessivi della formazione e della loro determinazione storica. Qui, per vicende strettamente connesse con la globalizzazione dura dei mercati e delle idee, stiamo subendo gli effetti di una oscillazione di lungo periodo tra un senso comune di marca cognitivistica ed uno di stampo positivistico (oggi è quest’ultimo che detta legge, con il consenso peloso dei padroni del digitale, interessati allo status quo che s’è venuto a costituire tra gli apparati della mediazione scolastica e quelli della mediazione mondana): è una condizione, questa, su cui poco ci stiamo interrogando, in sede accademica e politica, ma il cui pericolo maggiore, secondo l’approccio che ho seguito fin qui, consisterebbe nel fatto che ci si sta sfilando dalle mani la carta pedagogica e filosofica probabilmente più feconda perché impariamo davvero (con una sensibilità e un’estetica bambine) a fare i conti con la mutazione in corso: penso alla carta rappresentata da un pragmatismo costruttivistico non già ipocritamente verbaiolo ma coraggiosamente operativo.

 

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Che fare, allora?
Sul piano del confronto delle idee di formazione, si tratta intanto di impegnarsi a dar voce a questo animo birichino, aperto ad ogni tipo di assemblaggio, chiedendosi in che misura esso possa essere inteso come inscritto nel nostro dna culturale e possa ancora alimentare quel “romanzo senza fine” cui alludeva Emilio Garroni a proposito di un Pinocchio “uno e bino”. Se accettata, una prospettiva simile contribuirebbe, per mal che vada, ad introdurre una dose di coraggio e qualche sprazzo di liberatoria allegria dentro un ambito di ideazione, la pedagogia dell’infanzia, particolarmente segnato, qui da noi, oggi, da luttuose inibizioni, dovute, come sarebbe legittimo pensare, sia dalla desertificazione demografica che stiamo subendo sia dal conflitto, interno a tanti di noi adulti, tra l’esercizio pubblico delle virtù e l’esercizio privato dei vizi. Guardare in modo diverso al digitale, assumendo “punto di vita” del bambino, aiuterebbe in questo impegno di “rianimazione” concettuale.

Ma poi, a proposito delle condotte infantili e adulte dentro una realtà totalmente ricreata dal digitale c’è la questione inerente alle decisioni educative (ed autoeducative) da assumere, giorno dopo giorno, in famiglia e a scuola.

Il capovolgimento di prospettiva che ho proposto fin qui (il farsi bambini per aiutare i bambini a diventare adulti) appartiene, almeno come atteggiamento mentale, ad una tendenza, sia pure minoritaria, della cultura pedagogica nazionale. Ma lo si è utilizzato solo marginalmente e con imbarazzo, a proposito del rapporto attuale fra infanzia e universo digitale. Dobbiamo darci forza e superare queste nostre interne barriere. E lo dobbiamo fare da subito (dovevamo già farlo ieri) se vogliamo che i nostri piccoli possano diventare protagonisti e non vittime della mutazione antropologica in atto.

Ho precedentemente accennato al fatto che la pedagogia, sia quella ufficiale sia quella spontanea, è tuttora fortemente contrassegnata (quasi ossessionata) dai principi dell’alfabetismo. Ciò induce a concepire la cultura scritta e testualizzata, ossia fissata, circoscritta, articolata come alternativa “superiore” ad una cultura mobile, aperta, fluida: astratto contro concreto, formale contro informale, ordine contro disordine. In chiave evolutiva è come riconoscere che questa, la cultura mobile, andrà superata agendo con forza su quell’altra. Anche recentemente, quando, per via della pandemia, molte delle esperienze scolastiche hanno dovuto essere trasferite dal mondo fisico delle aule a quello liquido della rete, è stato messo in evidenza, da tanti, ciò che il digitale avrebbe in meno rispetto alla condizione precedente, assunta a mo’ di paradigma. Un approccio birichino servirebbe, a questo punto, ad instillare un po’ di dubbi e a rendere accettabile la prospettiva di considerare la testualità scrittoria e stampata non già come una alternativa superiore rispetto alla reticolarità ma come una specifica, fondamentale articolazione interna a questa, da far conquistare gradualmente, nei modi giusti e per così dire “riservati” dell’azione scolastica, ma senza che, con questo, si faccia mai perdere il contatto con la condizione di sapere concreto e sensitivo entro la quale essa si colloca, dove, insomma, suono, immagine, operazione hanno, dalla loro, dei più e non solo dei meno.

Foscolo è scuola, Rossini no. Ce lo possiamo ancora permettere? E comunque, funziona?

 

 

 

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